Descrizione
Se si fa satira, un viaggio è la cosa ideale. Di sicuro impegnativo, bisogna saper guardare tutto e poi raccontare. Non serve nemmeno andare nell’aldilà come fa Dante. I nostri viaggi quotidiani sui treni possono bastare. Qualche volta sono proprio un inferno. Non male. Si parte, non si sa chi si incontra, che cosa si trova, non si sa nemmeno se si arriva. Un’avventura ogni giorno, in andata e in ritorno. Ma il treno diventa la specola speciale, per guardare noi stessi e capire come siamo fatti. Sui treni c’è pure una bella vista panoramica sul mondo, dai finestrini scorre la visione delle montagne, dei vigneti, dei fiumi, delle case e delle città. Si vedono le stagioni, il sole che sorge e il sole che tramonta, la notte, il diluvio, la neve, gli alberi che mettono le foglie, le acacie e i ciliegi che mettono i fiori. È la vita. E attraverso il tempo si osservano le trasformazioni, la violenza e le ferite: i mostri delle bretelle, gli abissi delle pedemontane, il cemento e le ciminiere in dismissione degli impianti industriali smisurati, le grandi navi in cantiere con la stella di Natale. Sui treni salgono e scendono in una teoria che varia senza fine le persone, a cominciare dai compagni di viaggio che col tempo diventano amici. Ci sono le vite, i desideri, gli oggetti, ci sono soprattutto le inquietudini e la fatica. Ci sono anche i colori, gli odori, le lingue e i suoni. Una volta in viaggio comincia l’osservazione, già nella stazione, e poi a bordo, tra un incidente e l’altro del percorso che si ripete sempre diverso. Non si può mai prevedere come andrà a finire. «Vedere Venezia» diventa allora la metafora del desiderio, della speranza. La cosa più bella. Può anche essere solo una lezione sulla satira antica in un’aula grande davanti alla Giudecca. Non è detto che la si trovi, che ci sia ancora.
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