Descrizione
Giocondo Pillonetto (1910-1981), la cui vita viene qui narrata in forma di dialogo tra un poeta e uno storico, è stato pienamente un uomo del Novecento. Di quel secolo, grondante ferocia e meraviglie, Pillonetto ha vissuto i giorni luminosi delle rinascite e le notti lunghe dei lutti e dell’orrore. In mezzo alla temperie di anni non facili di guerre e dopoguerra ha saputo distillare con la sua poesia, assieme all’umanità che lo circondava dolente e affamata, un senso di futuro e di comunità che forse solo l’arte riesce a trasfigurare in progetto, in comune destino. La Sernaglia della sua osteria, che in precedenza fu farmacia, chiude quel lungo cordone ombelicale che porta le inquiete valli prealpine, cantate dalla voce dei poeti, a confluire nel Piave, patrio fiume. Prima di tuffarsi vagano, quelle valli, errabonde negli umbratili meandri dei domestici Palú di Sernaglia, dove si aggira letizia, come scrive Andrea Zanzotto, che in gioventù considerò Giocondo “fratello maggiore, se non (…) maestro”; per perdersi finalmente nel mar grando di Biagio Marin, dove si fa la Storia o forse si va oltre la Storia. Pillonetto con il suo sofferto indagare è precipitato nelle pieghe più profonde dell’animo umano sognando, profeta solitario, una redenzione e un possibile tempo nuovo. La farmacia/osteria, presidio terapeutico contro la solitudine e la disperazione dell’uomo contemporaneo, è ancora lì a testimoniare, in quell’angolo appartato di paese dove il crocicchio si fa mondo, che il suo cercare non fu vano, perché ancora donne e uomini entrano chiedendo alla figlia un’onbra o un caffè accarezzando con lo sguardo le suppellettili dalla patina calda e famigliare e, alle pareti, i lacerti/reliquie della sua vita.
Miro Graziotin
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